Cos’è la psicoterapia? A cosa serve? Chi si deve rivolgere allo psicoterapeuta? Chi è lo psicoterapeuta? Come sceglierlo?
Nella nostra cultura, ancora troppo inficiata dal pregiudizio, spesso si pensa che chi va dallo psicoterapeuta sia “il matto”. Purtroppo una tale credenza rischia, oltre che di stigmatizzare le persone, di rendere più difficile la scelta di chiedere aiuto se si prova una certa sofferenza. Accade quindi che, per evitare di sentirsi “malate”, le persone, quando si trovano invischiate in una sofferenza che non riescono a superare, prediligano riferirsi al “dottore di famiglia” o al neurologo. Troppo spesso, purtroppo, il risultato è che vengano unicamente prescritti medicinali, facendo così passare che la “giusta” risposta a una sofferenza psicologica (o psico-somatica) sia il farmaco. Non è così. Il farmaco è necessario in tutti quei casi in cui il sintomo, che può essere rappresentato da ansia, panico, problemi del sonno, attenzione, somatizzazioni, tristezza pervasiva, difficoltà nel portare avanti le proprie scelte, bassa autostima, ecc, renda impossibile un normale funzionamento sociale, lavorativo e relazionale della persona che lo presenta. Non bisogna quindi demonizzare il farmaco ma ricordarsi, e informare di questo la persona, che esso è deputato al contenimento del sintomo, non alla risoluzione del problema. E’ molto importante che, la persona che si rivolge al proprio medico per una certa sofferenza, sia informata esplicitamente di questo fatto. Questa è la base di quello che in medicina viene chiamato “consenso informato”.
Detto ciò bisognerebbe aiutare la persona a comprendere come la vera risposta alla sua sofferenza sia iniziare, con uno psicoterapeuta qualificato, un percorso psicoterapico. Ma di cosa si tratta?
La psicoterapia è un percorso di conoscenza di sé. Questa definizione, semplice e generale, può far ben comprendere come essa non sia deputata alla cura dei “matti”, bensì un mezzo, per ognuno di noi, finalizzato a comprendersi ben più a fondo di quanto normalmente pensiamo.
Nella nostra cultura, caratterizzata da una speciale attenzione all’apparenza e al materialismo, non ci viene insegnato, durante il processo della crescita, come imparare a conoscerci veramente. Ci viene detto che, per essere ritenuti “validi”, dobbiamo avere buoni voti, raggiungere certi obbiettivi, comportarci in determinati modi, raggiungere alcuni “ruoli”, ecc. Tutto ciò, spesso e sovente, conduce a porre una particolare attenzione al nostro esterno e a non interrogarci su “chi siamo veramente e cosa vogliamo”. Il risultato è che, la maggior parte di noi, anche se è certa di conoscersi, in realtà conosce solo aspetti superficiali di sé. Un buon esempio può essere quello della persona che si dice timida, introversa, oppure rabbiosa, estroversa, ecc. Tutti noi siamo abituati a dirci “io sono fatto così”. Questa posizione, anche se apparentemente decreta una certa conoscenza di come si è fatti, non promuove un approfondimento del perché ci diciamo fatti in un certo modo, del perché siamo timidi e introversi, oppure facili ad arrabbiarci o a parlare con gli altri. La maggior parte di noi si ferma quindi a pensare che essa “sia fatta in un certo modo” come se la propria personalità dipendesse da qualcosa di “altro” da lei stessa, magari dai geni. La verità, che la scienza ha posto in risalto, è che, fra quei geni e ciò che essi esprimono, ci siamo noi stessi e il nostro ambiente. Ciò significa che, nonostante possiamo avere gli stessi geni ed essere figli degli stessi genitori (ad es. si pensi ai gemelli omozigoti) possiamo avere personalità anche molto diverse. Perché? La risposta è che ognuno di noi fa proprio il suo ambiente in un peculiare modo, automaticamente e inconsapevolmente, durante il proprio crescere. Ed ecco che ci ritroviamo fatti in un certo modo piuttosto che in un altro. Nessuno ci dice però che non siamo destinati ad essere in quel modo per tutta la vita! Spesso essere timidi promuove una certa ansia nelle relazioni sociali, causa una certa sofferenza e conduce la persona a chiudersi in se stessa. Per quanto possa essere piacevole abitare il proprio mondo interiore, essere forzati a farlo da un proprio modo di funzionare rappresenta una certa coercizione o non-libertà.
L’unica vera risposta a una sofferenza psicologica, psico-somatica, è la psicoterapia. Non possiamo andare oltre la nostra sofferenza se non intraprendendo un percorso che ci aiuti a comprendere le ragioni “profonde” (le chiamo profonde in quanto per arrivare ad esse è richiesto un certo metodo e una certa difficoltà, quella appunto di “andare oltre” a come crediamo di essere) che supportano il nostro modo di vedere il mondo e noi stessi, pensare e agire. E’ solo entrando nella propria sofferenza, familiarizzando con essa, permettendocela, che potremmo riuscire a comprenderla e a lasciarla andare. Questo modo di vedere le cose si “scontra” con il senso comune e con un normale funzionamento mentale che tende ad allontanare la sofferenza per non sentirla: “vai a fare shopping e non ci pensare”, “morto un papa se ne fa un altro”, “bevici sopra”. Il problema è che allontanare la sofferenza non significa elaborarla e che, per quanto possiamo allontanarla, se essa fa parte di noi non potremmo mai liberarcene. Il processo di allontanamento che la mente attua ci conduce inevitabilmente a negare degli aspetti di noi stessi e ad utilizzare delle energie per sostenere tale allontanamento. Questo processo è continuo e oneroso in quanto, essendo nostra la sofferenza che proviamo, non possiamo che portarcela dietro ovunque andiamo, anche se la releghiamo in cantina. Proviamo a pensare, in metafora, a una persona che vive in un luogo dove nevica spesso ma ha paura della neve: essa dovrà continuamente spargere il sale e spazzarla dal proprio viale di casa in quanto la neve non cesserà di cadere. Si ritroverà quindi tutti i giorni a dover occupare buona parte del proprio tempo e delle proprie energie per tenere “pulito” lo spazio adiacente casa e con difficoltà si recherà oltre esso. La sua vita sarà sempre più “costretta” e monotona e magari, dopo molti anni che vivrà in questo modo, non si renderà neanche più conto del fatto che è possibile vivere una vita diversa. Solo entrando nella sua paura, familiarizzando con la essa e, soprattutto, comprendendo come mai nel suo evolvere ha sviluppato una tale paura, quale funzionalità ha per il proprio equilibrio presente, potrà un giorno liberarsene e tornare a godere della neve costruendo pupazzi e giocandoci con i propri figli. L’unico modo per uscire dalla propria sofferenza è entrandovi. Siccome non abbiamo le conoscenze per farlo da soli e siccome è molto difficile riuscire a osservarsi e comprendersi senza cadere nel proprio giudizio, è sempre bene affidarsi all’aiuto di una persona qualificata per farlo.
Qui sorge un’altro problema: il pluralismo teorico in cui, pian piano nel suo evolvere, è incappata la scienza psicologica. Purtroppo vi sono molte teorie, troppe, la maggior parte delle quali non sono coerenti e rispettanti le scoperte scientifiche contemporanee. Molti modelli si basano ancora su visioni riduzionistiche dell’essere umano e, sia che si incentrino sulle pulsioni sia che si incentrino sulla cognizione, sia che pongano maggiormente l’accento sull’ambiente piuttosto che sul mondo interno o viceversa, non rispettano la complessità che ci è propria e che la scienza ha posto in risalto, oramai da decenni, attraverso la Teoria dei Sistemi Complessi e l’epistemologia della complessità. Non mi dilungherò oltre nell’esposizione di tali aspetti teorici essendo questo articolo destinato alla divulgazione non scientifica ma mi preme mettere in guardia gli utenti sul fatto che fare una psicoterapia non significa farne un’altra. Molte volte, dopo lunghe riflessioni e titubanze, ci si decide a bussare alla porta dello psicoterapeuta e spesso se ne esce delusi o “non compresi”. Questo non significa che la psicoterapia non funzioni ma magari che quell’approccio non ci è stato funzionale ad affrontare la nostra sofferenza… o che non eravamo pronti per affrontare noi stessi.
Inoltre mi preme ricordare che il “fare psicoterapia”, ovvero l’aiutare un’altra persona a conoscere se stessa, non è solo conseguenza dell’applicazione di un metodo e una tecnica, facilmente studiabile sui libri che ci forniscono le nostre scuole di psicoterapia. Lo psicoterapeuta, a differenza di molti altri professionisti, deve, lui per primo , aver percorso la strada della conoscenza di se stesso e non deve mai abbandonare tale via. Non si può solo fare lo psicoterapeuta, bisogna esserlo, il ché significa che non si deve mai smettere di osservarsi e problematizzare la propria esistenza al fine di andare oltre quegli aspetti superficiali che ci relegano ad essere in un certo modo. Osservarsi, problematizzarsi, avere Presenza del proprio funzionamento e comprendersi deve diventare un modo di essere per coloro che intendono assumersi la responsabilità di aiutare altre persone a conoscere se stesse. Bisogna, prima di tutto, essere esempio di un certo modo di vivere e pensare: tutti noi trasmettiamo all’altro non ciò che vogliamo ma ciò che siamo.
Molti pazienti mi chiedono cosa debbono fare per essere buoni genitori, il mio consiglio non è quello di leggere manuali ma di lavorare su se stessi appropriandosi di ciò che si è. Solo così potremmo non trasmettere ai nostri figli i nostri stessi “problemi”, le paure e le nostre “rigidità”: solo essendone consapevoli e affrontandole noi per primi. Leggere “manuali del buon genitore” può aiutare ma solo se una tale lettura è finalizzata alla problematizzandone di aspetti di sé, alla propria scoperta e consapevolezza.
Mi auguro di essere riuscito a promuovere, con questo breve articolo, una visione della psicoterapia ben lontana da quella “cura dei matti” che ancora aleggia nella nostra cultura e di aver messo in risalto come un percorso di conoscenza di sé, visto il contesto sociale e culturale in cui viviamo, possa essere utile a tutti noi. Il fine della psicoterapia non è “curare una malattia” ma aiutare le persone a superare le sofferenze e le difficoltà in cui si trovano. In altre parole: vivere con serenità cogliendo le possibilità di cambiamento che l’incertezza della vita ci pone innanzi.
La sofferenza non è un qualcosa da evitare ma un importante segnale da ascoltare e comprendere per migliorare la propria vita. E’ la sofferenza che ci induce e motiva a cambiare. Se cerchiamo solo di eliminarla (attraverso l’assunzione di un farmaco come risposta rapida ad essa) ci precludiamo la possibilità di evolvere nella direzione della vita.
La Felicità è nelle possibilità di tutti noi qualsiasi vita abbiamo vissuto, qualsiasi vita stiamo vivendo, anche se così non ci sembra…