In questi tempi sono sempre maggiori i casi di bullismo che vengono denunciati e che, quindi, vengono resi visibili all’opinione pubblica. Non è di nostra importanza discutere se vi siano sempre stati oppure no, ciò che ci preme è riuscire a portare una riflessione capace di cogliere l’opportunità che la denuncia di questo fenomeno ci pone innanzi.
Prima di tutto dobbiamo considerare la gravità di questi comportamenti per chi ne diviene il bersaglio.
Ogni bambino, o ragazzino che sia, si trova in una fase della propria crescita in cui il giudizio dell’altro ha un particolare “peso” per il proprio equilibrio psico-corporeo (o coerenza) in via di evoluzione. Se da adulti possiamo, o non possiamo, dare più o meno peso al giudizio dell’altro, avendo o non avendo nella nostra interiorità sviluppato un certo amor proprio, un bambino si trova nel difficile compito di comprendere “chi è” in base alle esperienze che fa e ai riconoscimenti che ottiene dall’ambiente esterno. Una tale evoluzione non è solamente cognitiva, ragionata, ma passa attraverso dei canali non coglibili dal pensiero consapevole che strutturano il funzionamento profondo dell’essere umano. Ovviamente, il processo di definizione della coerenza inizia ben prima di tali avvenimenti, quando ancora il feto è in via di formazione nell’utero materno. Ciò non toglie che, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, siano di importanza fondamentale per la definizione di quella coerenza psico-corporea che caratterizza una determinata persona.
Siamo tutti abituati, chi più chi meno, a trovare conferma di noi stessi nel riconoscimento altrui, nel suo modo di descriverci, trattarci e comportarsi. Questo funzionamento, normale per il bambino-adolescente, dovrebbe evolvere nel riconoscimento di se stesso in base a “ciò che si è”, cosa ben più difficile e alla cui base vi è la consapevolezza di sé. Un bambino-ragazzino oggetto di comportamenti di bullismo, per quanto possa reagire ad essi in diversi modi, si trova di fronte una enorme difficoltà: cercando inconsapevolmente di scorgere se stesso negli occhi dell’altro inizia a “vedersi” come qualcuno da prendere in giro, denigrare, emarginare.
Come si può vivere serenamente facendo propria una tale idea di sé? Purtroppo la risposta è che non si può vivere serenamente credendosi, a un livello “profondo”, meno degli altri, qualcosa di brutto e inadeguato.
Una prima, automatica e inconsapevole, soluzione a un tale vissuto è quella della chiusura: ci si può rifugiare nei videogames, nei social, nello studio o in altro. Questi comportamenti, allontanando il soggetto da situazioni relazionali, leniranno l’evoluzione della capacità di relazionarsi e sfoceranno in tutta una serie di comportamenti che siamo soliti raggruppare sotto la categoria della timidezza, dell’ansia o dell’avversione sociale. Le “soluzioni” che il sistema psico-corporeo può attuare di fronte a un sentirsi “meno” sono varie e spaziano dall’ansia alla personalità narcisistica e anafettiva, da una personalità ossessiva e raziocinante a una dipendente ed emotivamente sregolata. Non ci interessa qui discutere oltre delle possibilità evolutive che una persona con un senso di sé inadeguato può percorrere, l’unica cosa certa è che, tale persona, con difficoltà riuscirà a trovare la serenità che le spetta in quanto essere umano.
Questo ragionamento porta quindi, giustamente, a condannare i comportamenti di bullismo che, sempre più, vediamo manifestare fra i nostri giovani.
Uno sguardo attento e propositivo non deve però fermarsi alla mera condanna in quanto il giudizio, per di più negativo, non è né terapeutico né risolutore di tali comportamenti. Per intenderci: dire che drogarsi fa male ed è una brutta cosa non ha di certo portato a una diminuzione dell’assunzione di droga.
E’ nostro compito, in quanto terapeuti e studiosi dell’essere umano, aiutare le persone a comprendere che dietro la manifestazione di tali comportamenti vi è un’importante possibilità educativa, per i nostri figli e per noi stessi.
Nessun bambino nasce con il “gene” della sopraffazione dell’altro. Un tale comportamento è indicatore di un profondo vuoto affettivo e, tale vuoto, “parla” del rapporto che questo ragazzo ha con i propri genitori e con il proprio contesto famigliare e sociale. Si può soddisfare ogni bisogno materiale del proprio figlio comprandogli i migliori giochi, vestiti firmati, il motorino, dandogli soldi contanti, ecc; si può sostenere con forza quella che per noi è una giusta educazione, sia che essa sia lasciva che deprivante, ma, se nostro figlio adotta comportamenti da “bullo”, allora significa che noi, in quanto genitori, stiamo fallendo nel crescerlo.
Dobbiamo saper leggere questi messaggi se vogliamo aiutare i nostri figli nella loro crescita: loro sono lo specchio di noi stessi e non possiamo esimerci dal prenderci le nostre responsabilità.
Essere genitori è qualcosa di difficile che non si impara su un manuale e che spesso, per tale ragione, è contornato da una certa confusione. Non vi è un modo “standardizzato” per affrontare il complesso compito della genitorialità e ogni figlio, nella sua diversità, richiede modalità differenti e uniche nonostante delle possibili linee guida. Per essere un “buon” genitore bisogna innanzi tutto conoscere se stessi, preludio della conoscenza dell’altro e della possibilità di rispondere adeguatamente alle sue problematiche e ai suoi bisogni evolutivi. E’ necessario passare del tempo con i propri figli e con se stessi se si vuole conoscersi e spesso, negli impegni e nella tensione quotidiana, rischiamo di deteriorare la qualità anche dei pochi momenti che condividiamo.
Dobbiamo stare attenti a utilizzare la “sgridata” come mezzo di adeguamento del comportamento: i comportamenti violenti che i nostri figli hanno spesso sono espressione della violenza con cui ci rivolgiamo loro quando sbagliano o non li reputiamo all’altezza delle nostre aspettative. Quando un ragazzo si comporta “male”, la prima cosa che dovremmo fare non è quella di schiaffeggiarlo o giudicarlo ma di chiedergli perché lo sta facendo e aiutarlo a sentirsi e comprendersi. Dobbiamo imparare ad ascoltarli, dobbiamo trovare il tempo per stare con loro, per giocare con loro, per insegnargli a vivere non obbligandoli ma dialogando con la loro diversità. Siamo noi il loro esempio che lo vogliamo oppure no, quindi, è utile continuamente chiedersi se si è un buon esempio nei comportamenti, nelle parole e nei toni di voce.
Non siamo i responsabili di ciò che saranno ma siamo i responsabili di ciò che sono e, un comportamento deviante di un figlio, deve essere per noi un campanello d’allarme che ci rende consapevoli che qualcosa stiamo sbagliando. Anche se ogni figlio ha una sua personalità, la nostra responsabilità è quella di aiutarlo a conoscerla e svilupparla, di essere una base sicura e un esempio di come la vita può essere vissuta nella serenità. Una tale consapevolezza non deve portarci a colpevolizzarci ma a permetterci di cambiare, aiutando i nostri figli a cambiare loro stessi.
Se spostiamo il nostro sguardo dal “bullo” alla persona soggetta a episodi di bullismo, dobbiamo considerare l’utilità del fargli comprendere che non vi è nulla di inadeguato in lui, nei suoi vestiti, nella sua timidezza, nel suo essere più piccolo degli altri, ecc. e, ancora di più, del poterlo ascoltare, dell’offrirgli uno spazio sicuro per permettergli di parlare delle sue paure, delle sue debolezze e difficoltà, del suo credersi meno degli altri, ecc. Oltre a questo dobbiamo ricordarci il discorso fatto poche righe innanzi: i nostri figli non devono crescere soli, siamo noi che dobbiamo aiutarli ad affrontare le difficoltà sino a renderli autonomi.
Il compito del genitore è quello di rendersi inutile ma non dobbiamo scordare che, per arrivare a tale obbiettivo, siamo molto e molto utili. Non possiamo pensare che i nostri figli diventino indipendenti affettivamente e materialmente se prima non li facciamo vivere in una “buona” dipendenza. Se non trovano in noi un pilastro su cui reggersi come potranno mai diventare loro stessi un pilastro? Sarebbe come pretendere che un bambino impari a parlare da un muto: è impossibile.
Purtroppo, quello che spesso avviene, è che i nostri figli diventano il ricettacolo delle nostre ansie e paure. Questo fatto è inevitabile perché dobbiamo ricordarci che non “passiamo” ai nostri figli ciò che vogliamo ma ciò che siamo. Per essere “bravi” genitori dobbiamo quindi, più che impegnarci per esserlo, cercare di lavorare su noi stessi così da affrontare le nostre ansie e paure, i problemi e le difficoltà che ci pone innanzi la vita. Tale onere passa per la via non dello scontro ma dell’accettazione di sé.
Come possiamo aiutare i nostri figli ad accettare le proprie debolezze, ansie e paure, se prima non le abbiamo accettate in noi stessi?
Il fenomeno del bullismo può dunque diventare un’importante opportunità per noi adulti per ritrovare un contatto diverso con i nostri figli e, in primis, con noi stessi. Spesso le nostre vite diventano una frenetica corsa caratterizzata da impegni, lavoro, sport, ecc. In questa corsa tralasciamo noi stessi e i nostri affetti. Questa corsa ci aiuta a lasciare alle spalle i nostri problemi ma non è lasciandoli alle spalle che mai li risolveremo. Dobbiamo, anche partendo dal fenomeno del bullismo, fermarci e riflettere, parlare a noi stessi e ai nostri figli, poter ascoltare i nostri e i loro problemi senza la pretesa di risolverli ma con la serena accettazione di chi è capace di starvi a contatto e abbracciarli. Ciò non significa non imporre un limite, ma permettere di discuterlo, spiegando le ragioni e ascoltando le difficoltà a mantenerlo.
Se poi pensiamo alle scuole, luogo ove spesso vengono messi in atto tali comportamenti, allora dobbiamo ancora di più ritenere che essi siano un ottimo spunto per approfondire la funzione educativa di tali luoghi. Lasciamo ai tribunali il giudizio e diamo alle scuole la loro più degna funzione: quella di educare i giovani esseri umani che le frequentano.
Importantissimo è il ruolo degli insegnanti che devono imparare a parlare apertamente di questi problemi creando degli spazi in cui ogni ragazzo possa portarli alla luce. Può essere molto utile avvalersi della figura dello psicologo per promuovere dei progetti per le classi finalizzati alla comprensione e all’ascolto di sé e dell’altro.
Bisogna parlare di bullismo ma ancora di più di ciò che non rende una persona migliore di un’altra. E’ necessario che si trasmetta con consapevolezza nelle scuole un mondo in cui i valori di eguaglianza, altruismo, aiuto reciproco, empatia, ecc, vengano esaltati a discapito della competizione e della sopraffazione che spesso sono alimentati da un sistema educativo basato sulla votazione e la categorizzazione.
Gli insegnanti sono i paladini dell’educazione dei nostri figli al pari di noi genitori: inutile cercare di darsi vicendevolmente le colpe, dobbiamo imparare a collaborare per riuscire, in primis, a trasmettere l’esempio non del conflitto ma della cooperazione.
I “bulli” non vanno solo giudicati ed emarginati ma aiutati ad essere migliori, a comprendere i loro errori, a vedere la loro difficoltà e il loro “vuoto” nel prendere in giro un compagno.
Spesso purtroppo nel gruppo dei pari accade il contrario: i bulli vengono esaltati. E’ quindi necessario che nel gruppo di classe si possa discutere di cosa è piacevole o spiacevole insegnando ai ragazzi a mettersi nei panni dell’altro, a sviluppare empatia. Uno strumento utile a tal fine può essere quello del role playing. In Italia sta anche lentamente emergendo l’importanza dell’introdurre lo yoga nelle scuole. Questa disciplina, mutuata dall’oriente, aiuta i bambini a fermarsi e a portare attenzione al loro interno, al corpo e al respiro, promuovendo una certa calma e serenità.
A questo punto possiamo forse possiamo meglio comprendere come il “promuovere calma, pace, amore e serenità” nei nostri figli sia il miglior strumento che abbiamo per prevenire comportamenti devianti e di bullismo e come, questo fine, passi innanzi tutto da una messa in discussione di ciò che siamo noi in quanto adulti, genitori e insegnanti.
Il fenomeno del bullismo, che spesso suscita la nostra indignazione, è un’importante opportunità per metterci in discussione nel nostro modo di vivere, comportarci ed essere perché, in fin dei conti, la realtà che viviamo è il nostro specchio e, se vogliamo cambiarla, più che giudicarla dobbiamo comprenderla.